giovedì 28 gennaio 2010

Benefits [1].



- "Che bellini! Hai mai pensato che se magari li pubblichi diventi famoso?"

Ogni volta che mi interfaccio con un nuovo ambiente, anche professionale (come in questo caso), mi toccherebbe spiegare tutto daccapo.
Ma valle a spiegare che sono già diciasette anni che pubblico i miei fumetti. Valle a spiegare che - nonostante questo - non sono "famoso". A lei, che i fumetti nemmeno li conosce, o che se anche ne legge qualcuno (Dylan Dog? O qualche manga?) è molto difficile che possa conoscermi, anche se il ragazzo di sua cugina "sai è davvero bravo a disegnare!". Valle a spiegare che comunque non li ho mai pubblicati per "essere famoso"...

Mi sento già abbastanza PRIVILEGIATO nel campare, se possibile, con le mie passioni.
Grafica, giornalismo musicale, fumetto. Roba talmente EFFIMERA che è quasi da INCOSCIENTI tirarci su una famiglia!
Soprattutto se tutte le tue scelte - tanto stilistiche quanto etiche, testardamente a zero compromessi nonostante i trentanove anni trascorsi - sono sempre state, nel tempo, tutto ciò che NON SI DOVREBBE FARE per "diventare famosi" (come mandare a cagare un noto di figlio di papà, anzi volevo dire il noto figlio improvvisamente direttore della nota casa editrice romana fondata dal suo serio papà, proprio nel momento in cui l'affermazione stava affacciandosi alla porta tramite loro). Ma tant'è.
Lo scopo non è mai stato il successo, nè tantomeno quell'illusoria gratificazione economica che ne può conseguire (che peraltro puoi comunque raggiungere anche senza "essere famoso").
No, lo scopo è vita altra. Fatta di tante cose, anche meno eclatanti.
Lo scopo è utilizzare le tue passioni ed il tuo eventuale talento (quando c'è) come mezzo per vivere, che è già tanto.
Possibilmente anche per vivere BENE.
Uno status che - lo ripeto - non è rappresentato esclusivamente dall'essere "famoso" (?) e/o dalla propria condizione economica. Ci mancherebbe.
Di cos'altro sto parlando, allora?
Di amore assoluto, armonia e spiritualità?
No. Stavolta non mi riferisco a concetti così puri ed astratti.
Stavolta, perdonatemi, il mio discorso è assai più pratico.

Faccio un esempio: molte delle cose migliori che derivano senza ombra di dubbio delle mie attività sono certi benefits che le caratterizzano.
Tanti piccoli particolari (spesso nemmeno così piccoli) che fanno la differenza.
Un argomento, questo dei benefits, su cui tornerò a breve.

mercoledì 20 gennaio 2010

Quando il cinema è davvero grande.



Tra i miei dieci film preferiti di sempre - si, di sempre! - c'è "Una vita al massimo" di Tony Scott (titolo originale "True Romance", molto più bello) del 1993, con la sceneggiatura di un certo Quentin Tarantino e una caterva di attori uno più bravo dell'altro: Christian Slater, Gary Oldman, Patricia Arquette, Val Kilmer, Brad Pitt, Samuel L. Jackson, Chris Penn, Christopher Walken e Dennis Hopper.

Ecco, proprio questi ultimi due interpretano magistralmente - da grandissimi fuoriclasse quali sono - quella che probabilmente è la più bella sequenza cinematografica degli ultimi diciasette anni, per dialogo, per regia e luci, per musica a atmosfera, per fotografia (splendida), per sguardi e tempi recitativi pressochè perfetti.
Il discorso che fa Hopper sulla dominazione dei Mori in Sicilia è molto simile, per concetto, al testo di "Figli di Annibale" degli Almamegretta.
Da notare tra l'altro James Gandolfini a.k.a. Tony Soprano tra gli scagnozzi di Walken.

Se non lo avete mai visto, tantopiù considerando che non è mai stato pubblicato in dvd, dovete davvero scaricarvelo e rimediare a questa grave lacuna.

Nel frattempo GODETENE da questa singola scena di circa quattro minuti e mezzo.
Anche perchè erano anni che volevo postarla!!! ;)

domenica 17 gennaio 2010

Sacco o Vanzetti.



ENTRO • Che considerassi Kento il più talentuoso della sua precedente compagine (gli Inquilini, con 4 album all'attivo!) è qualcosa che non ho mai nascosto; infatti, aldilà delle soggettività che si possono attribuire a tecnica e stile, lo spessore delle sue rime e la coscienza politica di matrice militante che permea la sua scrittura è qualcosa che lo ha sempre accostato alle mie corde, certamente più di molti altri, non fosse altro che per il mio retaggio antagonista. Detto questo, mi fa comunque sorridere la definizione "il primo disco italiano che sa essere politico senza essere partitico" coniata dal giornalista che ha intervistato Kento per "Groove" di gennaio 2010, visto che la militanza dei movimenti di base (anche delle posse, per intenderci) è per sua stessa natura extraparlamentare, quindi al di fuori di qualsiasi logica di partito.
Ad ogni modo, i più attenti dei miei lettori avranno sicuramente notato la pubblicità del suo album di esordio da "solista" per la Relief Records nella quarta di copertina dell'ultimo numero del Massacratore ("San Giorgio e il Drago"); il disco è uscito nei negozi da almeno un mesetto, quindi è con colpevole ritardo che mi accingo a scrivere questa recensione (scusa, Francesco!) ma finalmente ci siamo. E quindi, bando alle ciance, si aprano le danze...


Kento: "Sacco o Vanzetti"
(Relief Records Europe).

"Sacco o Vanzetti" è dunque il primo album di Kento, reggino di nascita ma oramai romano di adozione (o meglio: accolto tra le calda braccia di Roma) già negli Inquilini, già nei Kalafro Sound Power, già sui microfoni infuocati di mille palchi dal nord al sud dell'Italia, da almeno una decina d'anni. Bene, ora è il suo momento, quello preparato da tempo (io stesso avevo avuto modo di ascoltare una advanced copy di questo disco almeno un anno fa); il CD è assai stiloso sin da confezione e grafica, essenziale ed elegantissima.
Apre con il botto la potente INTRO: "Street knowledge, intelletto e spiritualità, è così che sopravvive la realtà... l'evoluzione della rivoluzione è dentro l'anima", come una chiara dichiarazione di intenti. Della traccia che dà il titolo all'album avevo già parlato QUI; il pezzo - già di per sè ricco nelle liriche e nella composizione musicale (con un pianoforte che gli imprime un'identità molto mediterranea) - è impreziosito nel refrain dalla bella voce di Taiyo "Hyst" Yamanouchi. Segue "All'orizzonte", dove Kento si dimostra un capace storyteller: è la sua storia, ripercorsa passo dopo passo, da Reggio alla Capitale. Un percorso di crescita e di tenacia, sia in termini umani (la vita in Calabria, il rapporto con le sue realtà malavitose viste attraverso gli occhi di un ragazzino, l'emigrazione familiare per motivi di lavoro, l'impatto con la grande città, la nostalgia ed il legame fortissimo con la propria terra d'origine) che professionali (l'università, la politica, il precariato, la ricerca di una maggiore solidità economica, la musica che purtroppo non paga ancora il mutuo di casa): "Mille palchi, mille fatti, mille scazzi e continuavo a cercare il mare in mezzo ai palazzi. Lavoro da precario ben oltre l'orario, scrivevo ma le rime non pagavano il salario. E adesso sono grande, ho un mutuo sulle spalle, e nessun capitale se non cervello e palle!".
Mi piace moltissimo la base di "So che ci sei", così solare, che nella sua fluidità (anche metrica) poteva tranquillamente essere il singolo di punta da estrarre dall'album. Il ritornello è cantato da Martina May, un bella voce femminile, sicuramente più idonea rispetto a quella presente nella versione che conoscevo già. E poi che stile: "Lingua popolare come il patwa in Giamaica, e accompagna James Brown alla jam di Biggie, Coltrane, Miles Davis, Tupac".

"Stalingrado" è la seconda traccia del disco a meritarsi il suo bel videoclip (peraltro interpretato anche dall'attore Francesco "il Libanese" Montanari, che posterò non appena verrà rilasciato): è un pezzo duro e potente, dagli incipit molto espliciti: "Spingo chi ha i concetti, non chi dice di averceli"... che altro dire? Da "Lucy in the sky with diamonds" dei Beatles ai "Guerrieri della notte" di Walter Hill, da Otis Redding a John Coltrane: "Non cambio una parola perché me l'ha detto un manager. L'etichetta fashion non apprezza il mio progetto, ma le mie rime non le pagano, quindi non hanno prezzo. Un rapper sa che è meglio un lavoro precario che dare il culo per un contratto e i passaggi in radio". Allora la musica è l'ultima trincea di Stalingrado. Ultima trincea ed unica possibile salvezza. Si, la musica come mezzo di salvezza, un concetto che torna spesso in questo disco, in modo più o meno palese, anche in altre tracce come "Nel mio mondo" o "Un giorno mi hai chiesto di spiegarti cos'è". Ecco, arriviamo proprio a questo, che forse - personalmente - ritengo il pezzo più bello di tutto l'album. Difficile spiegare con le parole la suggestione poetica che trasmette. C'è spiritualità, ci sono speranza e trascendenza, c'è una sorta di fede laica (non a caso Kento abbraccia il Rastafarianesimo, e mi si perdoni se ho utilizzato il termine in modo inappropriato); il ritornello cantato in spagnolo da Laryssa (che suona come avesse i solchi di un vecchio vinile) concorre al sapore trasognante dell'intero brano. Traducendolo, scopro che recita: "Nell'estate della vita, mentre corri, il vento ti ricorda che sei vivo, e gli alberi ti ricordano che sei parte del mondo". Bella l'idea. E non solo, perchè citerei anche: "È Zion per i rasta, Francesco per mia madre, libertà per mio nonno dopo un anno dentro un lager"... e ancora: “Era Montale quando scrisse dei limoni, Miles Davis che toglieva note dagli assoli". Davvero sorprendente.

"Poeta Laureato" sono tre minuti e cinquantotto secondi di rap senza concessioni e senza ritornelli. Una base looppata che ci riporta per strada (come fossimo a New York) per un fiume in piena di rime e pure skills. Pausa. "La verità" mi aveva catturato sin dalla sua precedente versione, per come parla di "lei" (della verità, per l'appunto) come fosse qualcosa di fisico, una terza persona singolare. Anche "Nel mio mondo", questa bella immagine metaforica dove il Che non è morto in Bolivia, dove John Belushi non si buca, dove Anakin Skywalker batte il lato oscuro della Forza, è un pezzo che ho amato sin dal primo ascolto, per il suo vigore, per il suo acume, in fondo anche per un ottimismo percepibile tra le righe. Non ultimo, anche per la sua limpida produzione musicale.
Aldilà del facile richiamo a Pavese (uhm, facile?) "Avrà i tuoi occhi" è un'altra bella prova di storytellin', che ci proietta in piene atmosfere da film gangster. No, anzi, mi correggo: in un romanzo hard boiled di Dashiell Hammett!!!

C'è ancora spazio per "Il reale e l'astratto", dove Kento è in compagnia di Easy One e Masta P. Poi un OUTRO che in pratica è una vera e propria ode a Bob Marley, dove si sottolinea il semplice concetto di base che "La musica è musica". E ben due bonus tracks finali, la cinematografica "Ciò che non siamo" con Karma e la potentissima "(A)" dove - oltre Indo e Levante - fa capolino anche un certo Chef Ragoo, per un'ultima ondata corale di rime taglienti.

L'album di Kento è un lavoro maturo e consapevole. Ottime basi (quasi interamente prodotte da Matteo "Peight" Vitagliano, ma con contributi sparsi di Dj Fuzzten, Torpedo, Dj Jack, Dj Fakser, Climaco e Nello "One Drop" Nobile), un suono pulito (merito della masterizzazione negli studi di Brooklyn della Relief?) e soprattutto testi molto più solidi e colti della media del rap italiano che abitualmente ascoltiamo. Cosa che - per paradosso - potrebbe limitarne la sua stessa commerciabilità; quindi (proprio per evitare un'ipotesi del genere) se avevate posto per un solo disco di rap italiano nel vostro carrello... beh, acquistate questo!!! E poi ne riparliamo.

ESCO • Dopo aver ascoltato per intero "Sacco o Vanzetti" più e più volte, dopo averlo assorbibito, fatto mio rima per rima sullo stereo di casa, in macchina o nel Mac che ho in ufficio, posso davvero ribadire che - nonostante non avessi alcun dubbio al riguardo - davanti ad un lavoro con una cifra stilistica del genere, sono ORGOGLIOSO di avere Kento come amico. Sei un grande, compare! ;)

venerdì 15 gennaio 2010

Haiti, quando la Terra trema.


Le proporzioni di ciò che è successo ad Haiti sono talmente titaniche che non ho davvero parole per descrivere il mio reale stato d'animo. Da sempre, quando penso ad Haiti penso a Wyclef Jean, non solo per i suoi natali, ma anche e soprattutto per la profusione dell'impegno umano che non ha mai smesso di dedicare alla sua sfortunata terra, perorando in prima persona, spesso fisicamente, le situazioni sociali più tragiche, le persone che vivono nella povertà più assoluta, i rifugiati politici, i bambini.
Quindi, non avendo adeguate parole, preferisco usare le sue.
L'altra sera era ospite alla CNN. Oggi, mentre tutto il mondo dello spettacolo statunitense - attori, cantanti, presentatori - comincia a mobilitassi nell'organizzazione di grandi maratone televisive (che ben vengano, sia chiaro, se servono a raccogliere fondi immediati) lui, Wyclef, è già a Port-Au-Prince, per strada, a scavare tra le macerie e recuperare corpi.

Bisogna assolutamente fare qualcosa. Non so cosa, ma qualcosa. Non fosse altro che per quei cinque dollari. Ognuno come può, ognuno a proprio modo. Subito.

lunedì 11 gennaio 2010

Like Peter Pan...

Ipotesi di un dialogo.



- "Ma perché fai continuamente di 'ste cazzate, Sergio?"
- "Perché a differenza di voi, nonostante vada per i quaranta io sono giovane dentro!!!"
- "Giovane dentro? No, caro mio, essere "giovani dentro" è un'altra cosa: significa non spegnersi, non arrendersi ad un sistema che vuole omologarci, conservare sempre un spirito creativo, non abbandonare mai le passioni e gli interessi che da sempre ci caratterizzano… è questo, casomai… tu non sei "giovane dentro", Sergio, sei semplicemente infantile, un immaturo cronico bloccato nella sua eterna adolescenza che si rifiuta di crescere e di cambiare. Fondamentalmente, sei un povero coglione".

domenica 3 gennaio 2010

De Mater Morbi.

O anche di "Dylan Dog" n°280, anche se questa NON E' una recensione.



E' necessario premettere che io NON SONO un lettore di Dylan Dog, per cui non posso fare confronti e/o paragoni con la storia di questo personaggio (e dei suoi autori) ma semplicemente giudicare un fumetto di 96 pagine per ciò che è, nella sua scrittura e nei suoi disegni, come fosse un volume autoconclusivo. Questo "Mater Morbi" è il n°280 della serie regolare, e tenete conto che è IL PRIMO che acquisto in vita mia. Ho deciso di prenderlo sull'onda delle lodi che sto leggendo in rete, che ne parlano come "un capolavoro"; e ovviamente (sarebbe sciocco negarlo) anche perchè è scritto da Roberto Recchioni, che - ridendo e scherzando - conosco da più di una decade, da ben prima della Factory e - cresciuto sotto l'ala protettiva del buon Bartoli - dell'indiscutibile affermazione professionale (leggi: successo) di cui gode oggi.
Lo dico con estrema schiettezza, proprio perchè questo wonder boy che sembra sempre incantare tutti, a me doveva ancora stupirmi, e non ho mai nascosto che - secondo la mia opinione, assolutamente soggettiva - nella nostra bella Factory il VERO fuoriclasse era (ed è) un altro, uno che magari non batte il Rrobe nazionale nella sottile arte della comunicazione web, uno che per sua stessa natura si mantiene più low profile, ma che in termini di TALENTO nella scrittura (nella continuità, nella qualità costante delle sue produzioni) manda a casa ogni altra rockstar del fumetto nostrano, marchettari compresi.

Ad ogni modo, quando dico che Roberto "doveva ancora stupirmi", parlo fondamentalmente del suo stile e dei suoi spesso sopravvalutati temi. Questo per dire che, tecnicamente parlando, lo considero un grande professionista, molto acuto, molto preparato, molto paraculo (elemento imprescindibile se si vuol fare strada in questo settore) con efficaci strumenti affinati negli anni. Molto abile nei dialoghi, nonostante immancabili stereotipi di matrice statunitense, che arrivano puntuali come battute tratte dal loro cinema, dalla loro televisione.
Conoscendo Roberto di persona (peraltro molto più di quanto lui stesso possa credere) e conoscendo i suoi gusti letterari, televisivi, cinematografici e videoludici, e non dico tutte ma molte delle sue fisse maniacali, io nelle sue storie a fumetti ho sempre trovato una eccessiva impronta referenziale ai generi che ama, che lo rendono per l'appunto un cosiddetto "autore di genere".
Ma è un gioco che dura poco: una volta che - tramite la conoscenza diretta e/o il suo blog - impari a conoscere/riconoscere uno ad uno suddetti generi (che poi guarda caso sono sempre gli stessi) il meccanismo della citazione alla citazione ha vita breve. Di fatto, diventa un fumetto che si nutre di altro fumetto, di serial TV, di un certo noir, di certa fantasy o SF, di certa action, di immancabili vampiri zombies e femmes fatales, anche quando vengono ambientati nel far west o a Caporetto. Sorvolando sul fatto che a me piace un altro tipo di fumetto, l'ho sempre trovato un esercizio assolutamente sterile, soprattutto per chi quei generi può tranquillamente gustarseli già dalle loro fonti originali.
In pratica è puro intrattenimento fine a se stesso, qualcosa che in fondo lui stesso - quantomeno concettualmente - difende a spada tratta. Ma che a me, da lettore, non basta. Tante citazioni, tanta azione, poca sostanza. Mi è successo sia con "John Doe" (sin dai primi 6 numeri, che mi aveva regalato lui stesso) che con "Battaglia" (aldilà degli splendidi disegni di Leomacs), fino a "Ucciderò ancora Billy the Kid" (forse la sua prova peggiore) e il recente "David Murphy 911" (che se devo leggermi una specie di Jack Bauer più sfigato, allora tanto vale che mi vada a vedere direttamente "24", no?); gli unici "guizzi" di vera originalità mi è capitato di trovarli casomai in qualche storia breve su "Skorpio" o "Lanciostory", ma su questo rischierei di dilungarmi eccessivamente.

Quindi torniamo a "Mater Morbi", su.
Perchè stavolta, forse per la prima volta, Roberto MI HA STUPITO.
Ha preso un personaggio ben più che popolare, e - utilizzandolo come un mezzo (senza snaturarlo minimamente) - ha raccontato una storia che non è nemmeno un'avventura, ma comunque una storia con i controcoglioni!!! Nei dialoghi, nelle riflessioni, nelle atmosfere cupe, nel senso di angoscia che permea tutto l'albo dalla prima all'ultima pagina. Potrei anche parlare delle STRAORDINARIE tavole di Massimo Carnevale (che sta probabilmente delineando il Dylan Dog assoluto), ma non adesso.
Adesso è il momento di riconoscere il merito di Roberto, soprattutto per come ha gestito l'argomento e la sua narrazione, affrontando un tema come la malattia - che ahimè conosce sin troppo bene - senza cadere nella facile retorica. Chi lo conosce, sa che all'interno di quelle didascalie c'è lui, assolutamente lui. E' Roberto al 100%, con il suo dolore, il suo cinismo, la sua profondità. Nelle rifelssioni di Dylan, nelle parole di Vincent, nella spietata ragione di Mater Morbi. Ed è proprio questo che ho apprezzato maggiormente: il mettersi completamente a nudo, esponendo il suo pensiero, abbandonando almeno per una volta i generi. Mettersi in gioco come persona con il risultato di centrare una grande storia come autore. Probabilmente la migliore che abbia mai scritto fino ad oggi.
Il prezzo da pagare nel raccontare cose di questo tipo all'interno di un contenitore seriale/popolare è ben poca roba. Mater Morbi poteva non essere la solita gnocca mezza nuda, d'accordo, così che Dylan non ci finisse inevitabilmente a letto. Ma - ripeto - rispetto alla qualità dell'insieme, sono particolari di poco conto, roba che ad un certo punto nemmeno importa più che sia una storia di Dylan Dog. E' un gran bella storia a fumetti, introspettiva, toccante, che invita a più riflessioni, sia di natura pragmatica (sul nostro sistema sanitario, per esempio) che etica, scritta da un Roberto in grande forma (che, detta così , in effetti sembra quasi un paradosso).

Nel chiudere con i miei più sinceri e DISINTERESSATI complimenti (nel senso che non mi servono favori e/o presentazioni, non ho tavole o sceneggiature da mostrare, non cerco pubblicazioni con suoi amici editori, etc. etc.) a questo punto l'unico "problema" che resta, per modo di dire, è che da "Mater Morbi" in poi per lui saranno veramente cazzi...