lunedì 27 febbraio 2012

In che mani siamo? ;)



Dunque, la storia è questa.
Sentite un po'.
L'idea mi frullava in testa già da diverso tempo, ma lo scorso dicembre - durante la manifestazione Più libri Più Liberi (dove mi trovavo sia in veste di lettore/spettatore, che in quella di autore Tunuè) - l'ho proposta ad un editore romano piuttosto noto di cui per ora eviterò di dire il nome, anche perché potrebbe darsi che non voglia ancora far sapere che potrebbe pubblicare qualcosa di così DIVERSO dal proprio catalogo.
Comunque sia, diciamo che si è dimostrato interessato.

Successivamente, ci siamo sentiti per telefono e per mail, entrando meglio nel dettaglio del libro che gli avevo proposto, fino alla stesura di una sorta di contratto di opzione. Che non è propriamente un contratto di pubblicazione, ma quasi.
Tenente conto che nel mio modus abituale secondo il quale "nun se butta via gnente" (nè i lavori, nè il tempo) mi è già capitato in passato di aver firmato un contratto per un libro con Castelvecchi (qui posso dirlo) per poi ritrovarmi ad opera praticamente conclusa di fonte al fallimento e alla chiusura dell'editore! E pensate che, con la mia intraprendenza, quel libro sia rimasto lì a prendere polvere?
No, esatto. Tempo dopo è uscito per un altro editore, altrettanto valido. Della serie che l'ho comunque piazzato, visto pubblicare (con tanto di anticipo sui diritti d'autore, nonostante tutti quelli che ci avevano già collaborato mi dicevano che quello lì non mi avrebbe mai pagato) e infine visto ben esposto in libreria.
E chi vuole intendere, intenda.

Ma torniamo all'oggi.
Questo nuovo libro si suddivide in due parti molto nette.
Il titolo provvisorio, in lavorazione, è Un diavolo in noir.
La prima parte sembra quasi un romanzo. Dove si racconta la storia molto particolare di un avvocato newyorchese attraverso gli occhi del suo quartiere e delle donne che lo hanno amato. Alcune sono morte, altre lo hanno tradito, altre ancora - dopo essere state sue amanti - sono arrivate ad ostacolarlo, ma non nelle aule del Tribunale. Qualcuna, grazie a Dio, è ancora dalla sua parte.
Piano piano che si procede nella lettura, ci si rende sempre più conto della dualità del nostro protagonista. Che se a prima vista sembra un uomo tutto d'un pezzo, dalla enorme caratura morale e deontologica, che si batte fino allo stremo in nome della Legge, poi scopriamo invece contraddire tutti questi suoi valori in nome di una Giustizia privata (che troppo spesso si confonde con la semplice vendetta personale). Quando non difende gli innocenti in aula, colpisce i colpevoli fuori da essa!
Entriamo quindi del delicato tema dei giustizieri. Che così su due piedi - anche per il linguaggio e la tecnica narrativa adottata - può immediatamente portare il lettore a pensare a Dexter, il giustiziere/serial-killer dell'omonimo serial americano di grande successo.
Anche perché fino a questo punto, non ci sono altri riferimenti riconoscibili.

Se non che, si arriva alla seconda parte del libro.
Ma apro una breve parentesi: dovete infatti pensare che questo libro non lo pubblicherà una casa editrice specializzata in fumetti, e verrà distribuito nelle librerie di varia, per un pubblico generico. Immagine di copertina e titolo non avranno nessun richiamo e/o riferimento fumettistico. Sembrerà una cosa molto seria, una sorta di thriller urbano (o al massimo un noir, come suggerisce il titolo stesso). Non è cioè concepito per quei cento possibili lettori appassionati di fumetto, quanto piuttosto per quei potenziali millenovecento che faranno esaurire la prima tiratura di duemila copie!!! Yeah.
Che in termini editoriali, per chi non lo sapesse, oggi come oggi in Italia sarebbe già un traguardo enorme.

Perché specifico una cosa del genere?
Perché quel quartiere di New York si chiama Hell's Kitchen.
Perché - non ve lo avevo detto? - quell'avvocato E' CIECO, e si chiama Matt Murdock.
Perché quelle donne si chiamano Karen Page, Elektra Natchios, Natasha Romanoff, Milla Donovan.
Perché quel giustiziere è un vigilante che si fa chiamare Devil.

E come il colpo di scena di un film, il libro da quasi/romanzo si trasforma in un saggio.
Dove si ricostruisce (e si decostruisce) la storia di questo straordinario supereroe della Marvel Comics creato nel 1964 da Stan Lee e Bill Everett, inizialmente considerato di Serie B. Dalle sue origini classiche alle infinite riletture operate negli anni, quelle che gli hanno fatto perdere l'innocenza: il Devil di Ann Nocenti, il Devil fondamentale di Frank Miller con la saga di Elektra, o insieme a David Mazzucchelli (Born again), a Bill Sienkiewicz (Love and War) o ancora a John Romita Jr. (The man without fear). Le cose che abbiamo saputo soltanto dopo, come la storia di suo padre, il pugile Battlin' Jack Mordock. I suoi importanti momenti di passaggio, come il Guardian Devil di Kevin Smith e Joe Quesada. Fino al Devil moderno, quello che - grazie a scrittori come Brian Michael Bendis e Ed Brubaker - è diventato sempre più cupo, tormentato, ossessionato. Con storie e superbi disegnatori (Alex Maleev, Michael Lark o l'italianissimo Marco Checchetto) che - pur muovendosi nel genere superomistico tinto di dark - ne stanno facendo un grande modello di noir contemporaneo.

Potrei andare avanti ancora un bel po', ma preferisco fermarmi qui.
Perché il vero motivo per cui sto dicendovi tutto questo è un altro.

Quando mi sono trasferito qui dove abito adesso, in zona Cinecittà, ho lasciato la stragrande maggioranza delle mie collezioni a fumetti nel sottotetto di casa dei miei a Casal Palocco. Chiuse in scatoloni di cartone, sigillate con lo scotch da pacchi. Inutile dirvi quanto sia difficoltoso/faticoso per me andare a recuperare uno ad uno tutta quella mole di albi, ammassata e messa via disordinatamente.

Alchè - vuoi per pigrizia, vuoi per quell'intraprendenza che mi è propria (come scrivevo prima) - m'è venuto in mente di scrivere "spudoratamente" al direttore editoriale della Marvel Italia, quello che solitamente chiamano "il Sommo"… avete presente, no?
Mi era già capitato altre volte di avere contatti diretti con lui, quindi gli ho scritto in modo molto spontaneo, senza aver nulla da perdere, delle serie "tentar non nuoce" (ma volendo anche della serie "domandare è lecito, rispondere è cortesia"). Per facilitarmi il lavoro, gli ho chiesto se cortesemente avesse la possibilità di mandarmi cinque volumi di Devil che mi mancano (cinque volumi che raccolgono importanti story-arc che avevo letto a puntate dentro gli albi spillati). Se non fosse stato possibile, gli dicevo inoltre che - senza problemi - mi sarei organizzato diversamente.

Ora, io mi chiedo - e chiedo a tutti voi - se vi sembra possibile che una delle più alte cariche dirigenziali di uno dei più grossi editori europei di fumetti, possa rispondere in questo modo ad una mail oltretutto gentilissima: "Ah ah ah, buona questa! Mi hai allietato la serata"...

Poteva rispondere di si, che lui una cosetta del genere (vista la sua posizione) la sistema in tre minuti!
Poteva rispondere di no: che era complicato, che non ne aveva voglia o tempo, che quei volumi - per dirne una? - sono esauriti.
Poteva addirittura non rispondere affatto, se poi rispondere significa farlo in quel modo.

Allora sulle politiche promozionali e le strategie comunicative della Marvel Italia, leggi Panini Comics, ne sono già state dette di tutti i colori, lo so bene. Ma se pensate che un volume che a voi costa dai sedici ai venti euro, a loro (come costo copia) non può superare i quattro euro, in pratica gli stavo chiedendo un aiuto/contributo equivalente ad una ventina di euro di valore totale… per qualcosa che - oltre ai miei ringraziamenti personali all'interno del libro, quindi una sorta di "coinvolgimento" informale - tratta comunque un personaggio che in Italia viene regolarmente pubblicato da loro!!!

Ora parlo proprio con te.
E' un concetto così difficile da afferrare, Direttore?
Tic, tac, tic, tac, sento già le tue dita che corrono sul touch screen.
Forse se consulti il dio Twitter ti da una risposta.
Ma soprattutto "Buona questa" come se io t'avessi scritto una battuta.
Dimmi: dov'era esattamente il punto in cui si poteva ridere?

giovedì 23 febbraio 2012

Da Ranxerox a Coca Colla!

The Cola Cola Company (suppongo tramite un rappresentante legale qui in Italia) scrive ai fondatori/amministratori di Coca Colla intimando l'uso del nome che - secondo loro - assomiglia troppo al proprio brand con le bollicine. Tocca cambiarlo o chiudere.

La diffida giunta a questi ragazzi da parte del colosso americano mi porta subito alla mente il caso analogo che investì Tamburini e Liberatore nel 1980 con il loro Rank Xerox.
Anche in quel caso, ricevettero una diffida scritta nella quale la Rank Xerox S.p.a. chiedeva l'immediato cambio del nome del personaggio - che dal '79 veniva pubblicato a puntate dentro a "Il Male" - perché altrimenti, in caso contrario (cit.) "la nostra Società si vedrà costretta a tutelare i propri diritti nelle competenti sedi giudiziarie"...

Gli autori lo cambiarono dunque in RANXEROX e il successo del fumetto (o meglio: il suo enorme impatto iconografico nel mondo) non ne risentì di una sola virgola.
Per la cronaca, quella lettera fu pubblicata in terza di copertina la prima volta che l'editore Primo Carnera raccolse le storie del nostro Ranx in un unico volume (nel febbraio 1987, in un libro che comprende sia quelle pubblicate su "Il Male" che quelle successive su "Frigidaire", a poco meno di un un anno dalla prematura morte di Stefano Tamburini avvenuta nell'aprile 1986) a testimoniare che non si trattasse solo di leggende metropolitane. Era tutto vero. Znort!

La storia, dunque, si ripete.

Eppure - nonostante certi procedimenti partano quasi sempre da dirigenze imbolsite che probabilmente nemmeno si prendono la briga di verificare COSA contenga/proponga effettivamente quella specifica realtà (spesso indipendente) che si sta andando a diffidare - c'è qualcosa di profondamente diverso nei due casi, in termini di percezione.

La Rank Xerox S.p.a. all'epoca poteva effettivamente non gradire l'accostamento del proprio nome ad un'opera considerata da molti IMMORALE. Quantomeno per i parametri borghesi di quegli anni, di cui riviste come "Il Male" e "Frigidaire" rappresentavano proprio la rottura.
Nei fumetti di Ranxerox c'erano troppa violenza, troppo sesso (anche con minorenni, come la stessa Lubna), un linguaggio troppo crudo ed esplicito. Figuriamoci quindi se i legali della società diffidante si misero ad interpretare il senso metaforico del tutto, la feroce critica sociale operata da Tamburini e Liberatore, che in quel momento di grazia (poi irripetuto) erano davvero avanti anni luce!
Scrivevano infatti (cit.) "protagonista è un personaggio di fantasia, le cui imprese sono un concentrato di violenza, oscenità e turpiloquio"… "l'uso di tale nome, poiché è associato ad un personaggio che è poco definire deteriore, è gravemente lesivo della nostra reputazione"…


The Coca Cola Company, invece, va a rompere le uova nel paniere ad uno dei siti più belli, innovativi e creativi che siano stati realizzati negli ultimi anni. Un luogo dedicato a design, street art, comunicazione e new media ("un blog d’ispirazione focalizzato su arte, design, advertising, cultura urbana, nuovi trend della rete e ogni forma creativa di espressione estetica") nato da una passione e una competenza che giungono direttamente da quella innegabile fucina di talento che è Catania… cioè proprio quel sud d'Italia che - anche nella demagogia sempre retorica delle nostre politiche giovanili - dovrebbe essere stimolato e supportato nelle proprie iniziative, soprattutto se di carattere culturale!

C'è genunio entusiasmo all'interno di Coca Colla.
C'è sana curiosità all'interno di Coca Colla.
C'è solo POSITIVITA' all'interno di Coca Colla.
Possibile che una multinazionale la cui immagine da sempre (anche nella proprie campagne pubblicitarie) è all'insegna dei valori positivi, debba andare a rompere i coglioni proprio a loro?
Ecco perché è solo FINZIONE e IPOCRISIA quel tipo di pubblicità.

Beh, a questo punto - come già fu per Ranxerox - io (mantenendo la stessa grafica e la stessa font, che poi è una tag) suggerirei la sostituzione di una sola lettera che crei un nuovo gioco di parole, sul genere POCA COLLA o COCA MOLLA o via dicendo.
Si, insomma: i creativi siete voi, no? Forza con le idee!!!
Io nel mio piccolo, per quanto possa contare, supporto.

domenica 19 febbraio 2012

Emma?!? • Il mio solito pezzo su Sanremo.

E' dal 2001 - cioè da quando ho cominciato a scrivere/lavorare per la Nexta Media - che scrivo ALMENO un pezzo all'anno su Sanremo, attraverso un altalenante percorso giornalistico che (anche quando cominciai a collaborare con Vanity Fair) mi portò giocoforza ad affrontare tematiche musicali più generaliste, non più specificatamente rap/soul/R&B. Nel 2004 ci sono addirittura stato di persona, a Sanremo. Ma erano tempi più frivoli e spensierati. Comunque sia, si parla sempre di musica, non di gossip. Quindi si aprino le danze con il mio obolo annuale…



Sia chiaro: a me Emma non ha fatto niente di male e non ce l'ho propriamente con lei. Casomai (e su questo blog l'ho ripetuto un'infinità di volte) ce l'ho con i talent show televisivi, con il loro meccanismo, con quello che mettono nella testa ai ragazzi che ci partecipano, cioè l'illusione - e la promessa? - di un successo troppo facile. Ma questa sarebbe un'altra storia.

Quello che mi lascia realmente basito, è la reiterata IMBECILLITA' degli autori e delle dirigenze della Rai, che sono quattro anni consecutivi - come dire: l'innegabile momento della piena esplosione dei talent show! - che cascano nella stessa trappola, nello stesso modo, con gli stessi artisti.
Quelli cioè che provengono dalla rodatissima scuderia di Maria De Filippi e dei suoi "Amici". Regalando di fatto un'enorme popolarità al programma di Mediaset (leggi: alla concorrenza) ed avallando quella stessa promessa di successo: hai vinto l'ultima edizione di "Amici"? Bene, ora puoi vincere anche il Festival di Sanremo!!!

Se escludiamo la vittoria di Roberto Vecchioni dello scorso anno, edizione in cui però non partecipava in prima persona nessun cantante di "Amici" (se non la stessa Emma, ma solo in veste di ospite dei Modà, piazzandosi comunque al secondo posto) nel 2009 ha vinto Marco Carta, nel 2010 ha vinto Valerio Scanu e ieri sera ha vinto Emma. Che tripletta, eh?

Possibile che lassù in Rai non ci sia qualcuno - magari non appartenente all'era giurassica! - che non capisca che il meccanismo del televoto farà vincere SEMPRE queste giovani star omologate, prodotti più televisivi che musicali?

Immaginate centinaia di migliaia di teenagers che vivono già NORMALMENTE con il cellulare in mano, abituati a televotare tutto e tutti, preparatissimi davanti alla TV (aspettando Emma, in questo caso) con la loro bella scheda prepagata, pronti a spedire quanti più SMS possibili con il loro cellulare, con quello di genitori nonni fratelli zii cugini e amici, pronti (e capaci) ad utilizzare al meglio il web - Twitter e Facebook su tutti - per incitare al televoto altri amici, altri cugini, altri fan, la loro intera community di "Amici"Che poi è proprio la forza del social network, potrei aggiungere.
Immaginate, insomma, quale OCEANICA mole di televoti sono capaci - questi teenagers - di far arrivare ad Emma!!!

Immaginate ora un Samuele Bersani.
Parlo di lui per dirne uno, nel senso che Bersani è bravo, i suoi pezzi sempre raffinati, la sua carriera musicale piuttosto esemplare. Il suo pubblico (così come la sua credibilità) se l'è guadagnato negli anni, fan dopo fan. Il suo pubblico è cresciuto INSIEME a lui, perché Samuele non gli è stato proposto in maniera preconfezionata dalla tivvù.
Parlo di lui perché - per esempio - piace molto anche a Teresa (fate conto che diversi anni fa, proprio per farglielo conoscere, la mandai ad intervistarlo al posto mio!!!). Eppure nonostante gli piaccia, lo ascolti e abbia qualche suo CD, anche Teresa - se lo vede durante la sua esibizione a Sanremo - non si alza mica per andare a prendere il telefono e votarlo. Capite?

Molto difficilmente il pubblico di certi cantautori - più maturo e/o comunque di età più adulta - utilizzerà il televoto per manifestare la propria preferenza, anche se quello che sta cantando in quel momento è uno dei suoi artisti preferiti.
Il risultato sarà inevitabile: Emma riceverà centinaia di migliaia di televoti, Bersani (nel migliore dei casi) solo qualche migliaio. Indipendentemente dalla canzone che sta presentando, dalla qualità del pezzo o dell'esecuzione.

Il risultato, inoltre, è sempre FALSATO.
Intendo dire che con questo meccanismo non solo non vince la qualità, ma non vince ciò che è realmente rappresentativo della musica italiana, sia in termini di cultura (si può ancora dire "cultura"?) che di mercato.

Una piccola parentesi super partes (visto che non sono certo il mio gruppo preferito): nel 2005 i Negramaro - un progetto genuino, coerente, dall'innato talento - parteciparono a Sanremo nella categoria "Nuove proposte" e furono eliminati alla terza serata. Oggi riempiono gli stadi.
Chiaro il senso della parentesi?

La vittoria a Sanremo per un/una cantante di "Amici" è sempre una vittoria di Pirro.
E' qualcosa causata da un mero calcolo matematico (il televoto) ma non significa molto altro.
L'ho sostenuto nel 2009 e ripetuto nel 2010, dicendo che il tempo mi avrebbe dato ragione.
Perché continuo a sostenere che questo genere di cantanti non rappresenta la musica italiana?
Perché mi davano del pazzo quando dicevo che Marco Carta e Valerio Scanu, nel pieno del loro successo, sarebbero durati poco. Ma a distanza di un lasso di tempo decisamente breve, sono già stati usati, mangiati, digeriti e cacati via dal mercato discografico, che è spietato. E avranno pure vinto un Festival di Sanremo, ma nella musica italiana già non contano più un cazzo.

Allora in bocca al lupo, Emma.
Riparliamo di te nel 2015, d'accordo?

domenica 12 febbraio 2012

La "mia" Whitney.



A questo punto potrete leggere tutti i necrologi che volete. Sul web ne fioccheranno a pacchi: coccodrilli di giornalisti che forse non hanno mai ascoltato un suo intero album in vita loro, retoriche e banalità come se piovesse su Facebook di gente che la ricorda solo per "I will always love you" (senza nemmeno sapere che è la cover di un brano originale di Dolly Parton) o per il suo "The Bodyguard" accanto a Kevin Costner (in cui era effettivamente bellissima) scrivendo commossi "addio, Whitney, ci mancherai"...
Io invece ne le dirò addio, perché i suoi dischi resteranno con me per sempre.
E parlo di quelli originali, uno per uno, non delle compilation che da oggi in poi le verranno copiosamente dedicate.

Io Whitney Houston l'ho sempre amata, e non mi vergogno affatto di dirlo.
Ci sono cresciuto insieme, sin dagli anni '80, dalle festicciole a casa di Francesca Placenti ballando "I wanna dance with somebody" (del 1987) in un'epoca in cui nemmeno conoscevamo un termine tecnico come R&B. Da quel momento in poi, l'ho vista crescere - successo dopo successo - fino alla consacrazione del 1992 con "La guardia del corpo", a "When you believe" in duetto con Mariah Carey, ai suoi 180 milioni di copie vendute nel mondo!
Continuando a seguire i suoi beats, come "It's not right but it's Okay" (contenuta nel suo bel "My love is your love") che però nel frattempo - nel 1998 - ballavamo al Black Planet!
Ho assistito alla sua ascesa, poi alla sua caduta. Ma l'ho amata prima e anche dopo.
Fino ai suoi recenti tentativi di rilanciarsi, aiutata dall'amica Alicia Keys nel suo ultimo album "I look to you" del 2009, di cui scrivevo QUI.

Non mi interessano, ora, le sue vicissitudini private, il suo matrimonio fallimentare con Bobby Brown (che penso ancora che un uomo che picchia la propria donna è una vera merda, quando - avuto dalla vita la grazie di averla accanto a se - avrebbe dovuto adorarla), i suoi problemi con le droghe e l'alcool, le sue infinite riabilitazioni in clinica.
Non mi interessa sapere se è morta per una miscela letale di superalcolici e medicine, o affogata nella vasca da bagno dell'hotel in cui stava soggiornando.

Io, ora, so solo che la sua morte mi rattrista molto.
Mi colpisce molto più forte di tanti altri recenti decessi di cantanti o attori.
Semplicemente perché l'ho amata molto. E la sua morte - per chi come me ama la musica nera, l'R&B, il soul - può essere paragonata al dolore che provarono tutti coloro che amano la buona musica italiana d'autore quando morì Lucio Battisti.
C'è anche qualcos'altro, una specie di sapore amaro, che mi suggerisce un paragone analogo (e azzardatissimo): Whitney si è spenta la notte dei Grammy Awards, nello stesso modo in cui Luigi Tenco si spense durante il Festival di Sanremo. Nel quale - ahimè - stiamo per entrare proprio tra pochi giorni.

In molti non consideravano propriamente soul o R&B la sua musica, definendola pop.
Perché Whitney è stata spesso "commerciale" nelle sue scelte artistiche, è vero.
Vorrei dire a quei molti di riascoltarla in una sua esibizione dal vivo per capire quanto soul ci fosse nella sua voce e nelle sue skills (vedere video in calce al pezzo), ma sono proprio quelle sue scelte POP/olari - contestualizzate nel mercato discografico degli anni '80 (cioè dei suoi esordi) - che hanno reso fondamentale il ruolo della "traghettatrice" che è stata, perché Whitney Houston ora e per sempre rimarrà il vero ANELLO DI CONGIUNZIONE tra la grande epoca di Diana Ross & The Supremes, Aretha Franklin e Dionne Warwick (sua cugina) e quella moderna di Mary J. Blige, Alicia Keys, Beyoncè (con e senza le Destiny's Child) e via dicendo.

Non voglio dire molto altro di più.
Se non un'ultima cosa, una di quelle che non dici mai (e di cui poi ti penti, quando ti rendi conto di aver esageratamente mostrato il fianco, e qualcuno potrà sparare a zero sulla tua sdolcinatezza): ogni mattina di ogni Natale, da tanti anni a questa parte, appena ci alziamo metto su "One Wish - The holiday album" della Houston. Non scherzo, chiedete pure conferma a Loredana Lolli!!! ;)
Ho tanti altri CD natalizi (molto diffusi nella cultura degli Usa) che mi arrivarono nei primi anni della scorsa decade, ma quello di Whitney è l'unico che ascolto.
Anno dopo anno, Natale dopo Natale.
E continuerò a farlo, ora più che mai.

 

giovedì 9 febbraio 2012

KNN+BDR • 5th preview


Kane è a capo della VTS - Vandalz Trucido Style: lui e Boombox stanno per incontrarsi con il resto della loro crew, per andare a stanare gli eterni rivali - la One Love - già armati di bombolette, in piena azione nella notte…

mercoledì 1 febbraio 2012

Sherlock.


Alla fine ho ceduto.
Mi sono visto in tre sere filate i tre episodi della prima serie di "Sherlock", che da diverso tempo continuavano a stazionare tristemente sul mio desktop. Che poi, almeno per una volta, lo voglio dire: che i primi a parlarmi di questa serie - stavolta - non sono stati i soliti fumettari o comunque i nerd dell'ambiente, ma Davide e Simona. Si, proprio il Secco e la Pili.
CHI?
E chi è Simona Pili?!? ;)

Comincio subito col dire che non sono affatto male. Anzi, tutt'altro. Sono realizzati ottimamente, come tra l'altro spesso accade nelle produzioni britanniche, forse meno "caciarone" di quelle americane (e COATTE come in fondo ci piacciono tanto) ma sicuramente più raffinate. Ci torno tra poco.

La prima cosa a cui ho pensato nell'accingermi alla visione, è la straordinaria capacità degli inglesi di attingere all'infinito - riciclandolosi in modo sempre originale e funzionale - al loro stesso patrimonio narrativo, senza alcun timore dell'autocompiacimento o della ridondanza. Vale per lo Sherlock Holmes di Sir Arthur Conan Doyle (che guarda caso, proprio recentemente sta vivendo una seconda giovinezza anche al cinema grazie ai film di Guy Ritchie) così come per il James Bond di Ian Fleming, altro personaggio "sempreverde" che sembra rinnovarsi generazione dopo generazione (e la sua ultima versione interpretata da Daniel Craig spacca davvero). Allo stesso modo, televisivamente parlando, mi viene subito in mente Doctor Who.

Noi chi abbiamo: Montalbano?!? ;)

Credo si possa dire che Sherlock Holmes lo abbiamo letto tutti, almeno una volta nella vita. Pur senza essere inglesi, lo abbiamo visto più volte sia al cinema che in televisione. Ricordo che persino Steven Spielberg rimase invaghito dal suo potenziale quando produsse "Young Sherlock Holmes" (in Italia "Piramide di paura") a metà degli anni '80, tentando un cambio di target nel pubblico, per [ri]proporlo ai più giovani.

Ora, in un'epoca di grandi serie televisive, quelle che più del cinema stesso stanno proponendo le cose più innovative, tocca nuovamente al piccolo schermo.
Prodotta dalla BBC, creata da Steven Moffat e Mark Gatiss (entrambi hanno lavorato al Doctor Who, guarda un po') ed egregiamente interpretata da Benedict CumberbatchMartin Freeman, che per quanto mi riguarda come attore supera lo stesso Cumberbatch… nonostante il personaggio di Holmes - giocoforza - risulti più accattivante.
In effetti, è talmente antipatico da risultare irresistibile!


Sia chiaro: secondo me Robert Downey Jr. lo manda a casa a mani basse. Non ho ancora visto la seconda pellicola attualmente nelle sale, ma il primo film di Ritchie mi aveva garbato assai, e lo Sherlock di Downey Jr. (che è un fuoriclasse dovunque lo mettiate) ha su di me un fascino macho che Cumberbach se lo sogna da lontano, effeminato com'è.
Non potrei dire lo stesso nel confronto tra i due Dr. Watson di Jude Law e Freeman, per esempio ;)

I punti di forza della serie sono comunque molti, a partire dalla scelta di ambientarla ai giorni nostri, nella Londra moderna. Una Londra bellissima, alla quale non sono abituato. Ritratta spesso con un cielo azzurro e terso. Ritratta tanto nelle sue architetture moderne quanto nei suoi vicoli vittoriani, nei suoi locali, nei suoi freddi colori naturali. Spesso anche con la tecnica del tilt-shift, che rende gli stacchi panoramici sia irreali che suggestivi.
Sulle trame c'è poco da dire: avvincenti perché ispirate ai romanzi originali. Dei tre episodi della prima serie, solo il secondo mi è sembrato avere qualche debolezza. Gli altri due sono pressoché perfetti. Regie impeccabili (anche in semplici trovate come i testi degli sms che lo spettatore legge direttamente sullo schermo, senza bisogno del solito primo piano del cellulare). Dialoghi e interpretazioni brillanti.

Quindi ci vorrà poco a dirmi: "Beh... soprattutto merito di Cumberbatch, no?"
E io risponderò di si, che in fondo è vero. Che mai attore fu più azzeccato per una parte. Però resto dell'idea che è la scrittura a dare forza al suo personaggio, ma che Freeman nella recitazione è comunque più bravo!

Insomma, a breve mi guarderò pure la seconda stagione, ma la metto in coda ad ALTRE serie, sulle quali peraltro mi soffermerò in altra sede.

E comunque Martin Freeman lo rivedremo presto come protagonista di "Lo Hobbit" proprio nella parte di Bilbo Baggins. La nota curiosa è che anche Cumberbach apparirà, per modo di dire, in questo imminente prequel alla trilogia de "Il Signore degli Anelli", ma SOLO nella versione in lingua originale, perché sarà la voce del drago Smaug e di Sauron. Che quindi si perderà nei doppiaggi delle varie nazioni.
Come dire che evidentemente anche Peter Jackson considera Freeman un attore superiore a quel bamboccio di Cumberbach, eh eh eh... ;)