domenica 28 febbraio 2010

Ne valeva la pena.



A metà film non ne potevo più degli occhialini verdi e rossi. Ho tolto dal lettore il disco con la versione in 3D e mi sono visto il resto con il dvd "normale". Se ne gode assai meglio ;)

lunedì 22 febbraio 2010

La mia su Sanremo 2010.


Dunque, chiariamo subito un paio di cose: 1) Non mi sono mai cagato "X-factor" (e di cosa penso dei talent-show di questo tipo ne ho già parlato abbondantemente qui), quindi che abbiano eliminato Noemi o altri/e cantanti sui generis non può fregarmene di meno. Figuratevi che sabato sera, cioè la serata finale del Festival di Sanremo 2010, ho dovuto scrivere Marco Mengoni su Google per sapere chi cazzo fosse 'sto tipo arrivato tra i primi tre! • 2) Delle "polemiche" che scaturiscono ogni anno al Festival nemmeno ci spendo due parole, visto che - aldilà del penoso spettacolo circense che anno dopo anno si abbassa di livello - la maggior parte di esse sono progettate a tavolino da smaliziati uffici stampa e scaltri autori Rai. Quindi 'sti cazzi anche del trio Pupo > Emanuele Filiberto > tenore che-non-ricordo-nemmeno-come-si-chiama, che altrimenti ci sarebbe solo da vergognarsi.

Volevo invece parlare (o non parlare?) del vincitore, cioè Valerio Scanu.
Visto che è il secondo anno di seguito che Sanremo viene vinto da un cantante (ehm?) di "Amici".
E sulla dinamica della sua vittoria potrei copiare & incollare il mio pezzo dell'anno scorso dedicato a Marco Carta.
Cioè, capite? E' accaduta la stessa identica cosa!!!
Allora mi chiedo: è mai possibile che i funzionari Rai non capiscano che in questo modo - con il televoto - continueranno a farsi fottere da programmi come "Amici"?
E' mai possibile che nessuno di loro arrivi a capire che è come giocare fuori casa, sul loro campo?

Io, boh… non ho da aggiungere altro :(

Anzi, invece si.
Mi è dispiaciuto vedere un'artista che ADORO come Mary J. Blige totalmente sminuita dal contesto in cui si è esibita.
La maggior parte degli italiani non sa nemmeno chi sia. Il pezzo che ha interpretato non è stata certo la migliore delle scelte. La presentazione iniziale e la breve intervista finale condotta da Antonella Clerici non hanno fatto altro che rendere ancora più squalificante la sua presenza al Festival, perché - a livello percettivo - quello che ne è risultato non è certo l'immagine della grande DIVA che è, del suo ruolo di REGINA… l'unica, vera, credibile erede di Aretha Franklin nel firmamento della musica nera contemporanea.
A proposito: sta per uscire il suo nuovo album. So, stay tuned…

venerdì 19 febbraio 2010

Heligoland.



Qualche giorno fa ho acquistato (si, proprio acquistato: mi capita, sapete?) il nuovo album dei Massive Attack, che arriva dopo SETTE anni (!) dal precedente "100th Window" (se non consideriamo la colonna sonora di "Danny The Dog" del 2004 e il greatest hits "Collected" - con alcuni inediti - pubblicato nel 2006); in pratica, questo "Heligoland" (Virgin/Emi) è SOLO il loro quinto album in studio, e sembra così strano considerando la loro ventennale carriera, nonchè il peso e l'influenza che il collettivo di Bristol ha avuto su tutto il suono prodotto dagli anni '90 in poi, a livello mondiale.

I Massive Attack tornano dunque in grande, grandissima, forma. Robert "3D" Del Naja e Grant "Daddy G" Marshall di nuovo INSIEME, finalmente, da vecchi amici (su "Mezzanine" avevano lavorato separatamente, in tempi e studi differenti, senza incontrarsi quasi mai, mentre "100th Window" è stato addirittura realizzato per intero dal solo Del Naja) e - con loro - alcuni dei collaboratori di sempre e tanti importanti ospiti alla loro prima volta su questi solchi.
Tornano NON per stupire nuovamente, ma casomai per confermare la propria grandezza, permettendosi un album senza troppe sperimentazioni, con un grande ritorno alla melodia, meno cupo e "disturbato" delle ultime produzioni. Eclettico, raffinatissimo, con momenti di rara bellezza.
La sensazione è quella di un progetto che ha già dimostrato al mondo ciò che doveva dimostrare, e che adesso - mettetevi comodi e allacciate le cinture! - raccoglie i propri frutti, e (condividendo) ne gode per farne godere, ridefinendo alla perfezione ogni dettaglio compositivo, produttivo e sonoro.

Non che non manchi la loro abituale inquietudine, sia chiaro: "Pray for rain", che apre l'album con l'interpretazione di Tunde Adebimpe (dai TV On The Radio) ha un momento, intorno al suo quarto minuto, in cui un'apertura sonora (archi compresi) sembra portare luce nel buio, acqua nella terra arida, ma che poi - spiazzando l'apparente leggerezza - si interrompe improvvisamente per ripiombare nella siccità. E c'è un qualcosa in questa "danza della pioggia" che - forse nelle batterie metalliche, forse nella voce dello stesso Adebimpe - può ricordare il miglior Peter Gabriel.
Dopodichè spazio alla straordinaria voce di Martina Topley-Bird (già protagonista della scena drum'n'bass e trip hop anglossassone, già voce per Tricky sul suo capolavoro "Maxinquaye", ma anche per Gorillaz, Roots Manuva e Queens of The Stone Age, oltre a tre album solisti all'attivo) nella successiva "Babel", ipnotica e sensuale.
Segue la claustrofobica "Splitting the atom", già singolo e titolo di un omonimo (ed introvabile) EP che preludeva l'uscita dell'album, e che - oltre alla presenza di Del Naja & Marshall - ci riporta l'inconfondibile timbro vocale del fedelissimo Horace Andy, puntuale alla chiamata dei suoi compagni di viaggio.
Immancabile, torna anche nel brano seguente, cioè "Girl I love you", bellissima proprio nella sua forza evocativa, che ripesca a pieno nel groove degli anni '90. A livello di riferimenti, parlano di "It's no good" dei Depeche Mode o addirittura del giro di tromba di "Atom heart mother" dei Pink Floyd, anche se io sono sempre più convinto che queste trombe distorte siano una specie di inside joke, dove i Massive Attack citano se stessi, stonando acidamente la partitura orchestrale della loro celebrissima "Unfinished sympathy". Voi che dite?

"Psyche" ruota interamente su un'ipnotico gira di chitarra, con il canto di Martina in primo piano assoluto, valorizzato al massimo.
"Flat of the balde" sforna il featuring di Guy Garvey degli Elbow. Quasi due minuti "introduttivi" algidamente elettronici. Poi sulle microbatterie subentra la melodia, assai notturna. Archi. Fiati. E la voce soul di Garvey, che porta anima e calore al tappeto sonoro che - altrimenti - sarebbe solo esercizio (e ostentazione) di stile e tecnologia.
"Paradise Circus" è indubbiamente il mio pezzo preferito dell'intero disco. Una canzone d'amore, triste ed ironica allo stesso tempo, interpretata dalla bella voce di Hope Sandoval, cantautrice statunitense pressochè sconosciuta in Italia (nonostante i suoi due album). Linea di basso solida, abbondanti clap (proprio l'elemento che conferisce ironia al pezzo), ma soprattutto uno struggente/trasognante finale orchestrale degno del più puro Massive sound originale!
Puro straniamento distillato in gocce per la "Rush Minute" di Del Naja, l'unico pezzo del disco che - nella sua disturbante liquidità - sembra riportare al suono (concettuale) del precedente "100th Window".
"Saturday come slow" ha un paio di ospiti d'eccezione: in primis Damon Albarn (che qui canta, ma che in realtà nel disco è presente anche al basso in "Flat of the balde" a alle tastiere in "Splitting the atom") e inoltre Adrian Utley dei Portishead - oh, yeah! - alla chitarra. Un brano davvero molto bello.
Chiude "Atlas air": gli ultimi ipnotici/ossessivi sette minuti e quarantanove secondi di un Del Naja "a solo" (così come la copertina del disco, disponibile nei negozi in diverse colorazioni, che è dipinta da lui) con tanto di lunga coda elettronica da stato ansioso, che i più attenti possono ricordare in una sua (psichedelica) esecuzione dal vivo nei recenti concerti italiani dei Massive Attack, quando l'uomo di Bristol che tifa Napoli - annunciando l'imminente arrivo di un album inedito - la proponeva come vera e propria anteprima del loro nuovo disco.

E qui "Heligoland" finisce.
Applausi.

domenica 14 febbraio 2010

Aspetta che t'aspetta...


L'ho aspettato a novembre, l'ho aspettato a Natale, l'ho aspettato per la Befana e per tutto gennaio, invano... ma finalmente ECCOLO!!! :)
Preso stamattina alla libreria "Origami", dove ero a presentare il mio "Roots 66" (a proposito: grazie a tutti coloro che sono passati a trovarmi e che hanno acquistato una o più copie!).
Tornando alle 858 pagine de "Il sangue è randagio" di James Ellroy (Mondadori, € 24,00), ora ce l'ho.
Ne riparliamo appena l'ho finito.

venerdì 12 febbraio 2010

"Roots 66"" a Palocco!!!


• clicca l'immagine per ingrandire

Che altro dire?
La locandine dice già tutto.
Voi, si, proprio "voi" per cui l'evento è stato pensato e realizzato, voi SAPETE CHI SIETE...
Vi aspetto tutti :)

giovedì 4 febbraio 2010

Stalingrado.

La musica, ultima trincea.



Nuovo singolo estratto dall'album "Sacco o Vanzetti" (Relief Records EU) di Kento. Il pezzo è rappato dallo stesso Kento, musicato da Matteo "Peight" Vitagliano e scratchato da Dj Fuzzten. Soggetto e regia del videoclip sono di Andrea D'Asaro. E noterete l'amichevole partecipazione dell'attore Francesco Montanari a.k.a. il Libanese del "Romanzo Criminale" televisivo. Non ultimo, c'è anche il writing si Soevv.

La recensione all'album la trovate QUI.
Il primo video "Sacco o Vanzetti" lo trovate QUI.

Ah, dimenticavo: ad un certo punto di "Stalingrado" sbuco pure io, di passaggio al C.S.O.A. Forte Prenestino una domenica mattina. Chi mi trova/riconosce vince un premio!!! ;)

lunedì 1 febbraio 2010

Three R&B shots.



Per chi ama l'R&B, questo è stato un inverno ricco di importanti uscite discografiche, soprattutto da parte di coloro che vengono unanimamente riconosciuti come i mostri sacri del genere. L'inverno peraltro non è ancora terminato, quindi dopo il grande ritorno di Whitney Houston e prima che giunga il nuovo uragano Mary J. Blige, soffermiamoci sui tre nuovi dischi di Mariah Carey, R. Kelly e Alicia Keys.

01. Mariah Carey: "Memoirs of an imperfect angel"
(Island/Def Jam/Universal).

Cominciamo dall'ex signora Mottola, che - proprio come la Houston - è stata una delle più grandi dive degli anni '90 (con più di centosattantacinque milioni di copie vendute nel mondo, avete idea di che cifra siano?) poi sprofondata in crisi, depressioni, separazioni ed esaurimenti nervosi al limite della schizofrenia, poi rinata ad una seconda giovinezza artistica che ce l'ha riportata in buona forma da "The emancipation of Mimi" (2005) in poi, nonostante oggi rischi comunque di sembrare la parodia di se stessa, soprattutto in termini di look (cioè NON di voce, che ancora c'è) in questa sua ossessiva ostentazione di una perfezione fisica assolutamente posticcia che sembra un tentativo decisamente disperato di avere ancora vent'anni.
Ma veniamo ai pezzi. Il primo singolo dell'album - "Obsessed" (che nel CD è presente con ben quattro dicasi quattro inutili remix!) - una sorta di dissing come si usa nel rap, sembrava rivolto contro un certo Eminem. Poi saltò fuori che non si parlava di lui, che era tutta una specie di montatura, una grande mossa pubblicitaria per attirare l'attenzione dei media sull'uscita del disco. Promozione che, visti i risultati delle classifiche americane, ha funzionato perfettamente (a dimostrazione del fatto che la Carey del tutto scema ancora non lo è!). Dopodichè è seguita la struggente cover, molto ben riarrangiata, di "I want to know what love is" dei Foreign, che ha goduto di un ottimo airplay anche in Italia (probabilmente proprio grazie alla sua esibizione ad "X-Factor"). Non ha invece beneficiato della stessa sorte il terzo singolo - "H.A.T.E. U" - che in pratica è stato totalmente IGNORATO dalle nostre emittenti radiofoniche. E comincia solo adesso a girare una versione differente di "Up out my face" con il feat. di Nicki Minaj, che non è propriamente il quarto singolo del disco quanto piuttosto il primo dell'imminente album di remixes, cioè "Angels Advocate" annunciato per marzo 2010 (ma ce n'era davvero bisogno?).
Che altro dire di questo dodicesimo album in studio di Mariah? In linea di massima l'ascolto è piacevole, e d'accordo suonano bene "Betcha gon' know" (il prologo), "H.A.T.E. U", "Angel cry" e "Standing O" (tra tutte, forse la migliore) ma non bastano nemmeno le firme di Terius "The Dream" Nash, di Christopher "Tricky" Stewart, di Cindy Lauper (!) o della buon'anima di Barry White (?) a far decollare il tutto. Le produzioni musicali sono pressochè PERFETTE, i volumi e il sound dell'intero lavoro sono IMPECCABILI, ma il risultato finale - comprese le interpretazioni vocali della nostra ex diva - è asettico, una somma artificiosamente patinata, che sembra di plastica! Si, "di plastica" come la sua interprete, le cui apparizioni live o da ospite in qualche talk show non coincidono con la forma che mostra nei suoi videoclip; roba che oramai - quasi quarantenne - potrebbe davvero permettersi di fregasene, tenendo conto del talento vocale di cui la natura le ha fatto dono. E invece c'è qualcosa di fondo che tradisce un evidente complesso, come nelle copertine e negli elaboratissimi booklet dei suoi CD, dove l'uso di Photoshop è talmente evidente (ed eccessivo) da risultare non solo ridicolo, ma imbarazzante. Con il risultato (e quasi mi dispiace dirlo) di renderla veramente PATETICA.

02. R. Kelly: "Untitled"
(Jive Records/Sony Music)

Se mi sono lasciato sfuggire un "piacevole" per il disco di Mimi, per il nuovo album di R. Kelly - ahimè - non posso che dire DELUDENTE. Questo non significa che l'album della Carey sia in qualche modo superiore a quello del nostro caro crooner di Chicago, sia chiaro; oggettivamente parlando, R. Kelly la batte su tutta la linea, ma quante più sono alte le aspettative di chi ama un artista, tanto più è grande la delusione per qualcosa che sa realmente di cialtronata!
"Untitled" è dunque il nono album del riconosciuto King of R&B (escludendo il primo con i Public Announcement e i due realizzati in coppia con Jay-Z) che evidentemente - dopo anni di performances ai massimi livelli - ha dato tutto ciò che poteva dare, ha esaurito la sua vena. Credo che per ogni artista vivente esista una sorta di parabola creativa dalla quale, una volta raggiunto l'apice, si può solo cominciare a scendere - inesorabilmente - la crina. In effetti già dallo scorso "Double up" del 2007 scrivevo: "il suo nuovo album è ben lontano dai suoi capolavori (“12 Play” del 1993 e “R” del ‘98) così come dalla svolta squisitamente soul di “Happy People” del 2004. È un buon prodotto R&B, d’accordo, ma niente di fondamentale, niente che aggiunga qualcosa di nuovo al suo valido percorso artistico". Idem questa volta, tre anni dopo. Nessuna vera innovazione, nessun "guizzo" di vera originalità come poteva essere la sola "Trapped in the closet" all'interno di "TP.3 Reloaded" (2005). Sembra davvero finita la sua era. Forse potrà smentirmi/stupirmi con il prossimo disco. Ma certamente NON con questo. Insomma: se è davvero questa la direzione che sta prendendo, allora da oggi in poi preferirei vederlo solo in veste di autore/produttore per altri, utilizzando a pieno quell'intuito musicale che ebbe in passato nello scoprire dei talenti puri come Aaliyah o Sparkle.
Ad ogni modo, parliamo un po' di questo "Untitled": quindici tracce che spaziano dal dancefloor al down-tempo, un'autocelebrazione che non necessita nemmeno di troppi ospiti, se escludiamo R. City nella rumorosa "Crazy Night", O.J. Da Juiceman nell'ipnotica "Supaman High" e Tyrese (assai bravo), Robin Thicke e The Dream (guarda un po', uno dei produttori della Carey) in "Pregnant", che - oltre a chiudere il disco - è anche uno dei suoi brani migliori. Se dovessi davvero salvare qualche pezzo, salverei le ballate come "Exit", "Echo" e "Text me", o un ultimo barlume dei vecchi fasti come "Religious"; per contro, mi chiedo come un musicista che per così tanti anni ha dimostrato tanta capacità e gusto, possa poi comporre vere e proprie CAFONATE danzereccie (di basso livello) come "I love the DJ" o "Be my #2"!
L'omologazione del peggior R&B possibile si palesa proprio in quello che dovrebbe essere il brano di punta dell'intero album, cioè "Number One" cantata insieme alla brava Keri Hilson, ma che - nella sua ovvietà - sarebbe addirittura possibile SOVRAPPORRE a "Ribbon" di Mariah Carey (la quinta traccia di "Momoirs") facendole girare insieme sui due piatti, in termini ritmici e sonori, nell'idea compositiva/produttiva di base. Mah.
Della serie: provaci ancora, Robert.
C'erano sicuramente più dedizione e più convinzione in "I believe", il pezzo dedicato alla vittoria di Barack Obama.

03. Alicia Keys: "The element of Freedom"
(Jive Records/Sony Music).

Discorso ben diverso, infine, per Alicia Keys.
Giunta al suo quarto album, le sue skills sono tutt'altro che esaurite.
Dopo aver scritto la più bella canzone dell'ultimo album di Whitney Houston, dopo aver duettato con Jay-Z nella potentissima "Empire state of mind" (tuttora passata molto per radio) è nuovamente il suo momento: "The element of Freedom" esce in doppia versione CD o CD+Dvd in tutti i negozi del mondo, per riportarci il talento vocale e compositivo di Alicia in tutto il suo splendore! L'intero album è semplicemente bello da ascoltare, dalla prima all'ultima traccia (cioè la quattordicesima, che poi non è altro che una nuova versione di "Empire state of mind" senza Jay-Z, eseguita quasi interamente al pianoforte, se possibile ancora più emozionante). Ma ripartiamo dal primo brano, con una brevissima premessa: in tutto il nuovo lavoro della Keys aleggia un sound molto anni '80, qualcosa che lo permea nelle batterie, nei sintetizzatori, nelle chitarre lontane (alla Phil Collins, per dire, proprio come "In the air tonight" stava al "Miami Vice" televisivo), che non posso immaginare casuale o involontario; unito alla matrice soul/R&B caratteristica dell'artista newyorchese, ne scaturisce qualcosa di davvero originale e funzionale.
Dopo "Element of Freedom" che funge da INTRO, con "Love is blind" Alicia ci proietta immediatamente nel suo mood, fatto di cuore e sangue, fatto di strada e asfalto. A seguire, lo straordinario primo singolo - "Doesn't mean anything" - una ballata "in crescendo" che gira interamente sull'armonia portante del piano. La quarta traccia è "Try sleeping with a broken heart", che trovo una delle più belle dell'album, che nel cantato delle strofe (non del refrain) ha un che di Prince, lo suggerisce a livello evocativo. Così come la seguente "Wait til you see my smile", che - nelle tastiere, nelle batterie e nei controcanti - riporta alla mente lo stile delle Wilson Phillips (ricordate "Hold on"?). Ancora atmosfere struggenti e pulsanti con "That's how strong my love is" e "Un-thinkable", fino alla più reggaeggiante "Love is a disease". Divertente poi il duetto con Beyoncè nella scatenata "Put it in a love song", quasi a restituire il favore al marito della Sig.ra Knowles-Carter. Per non star qui a citarle tutte (che comunque lo meriterebbero) ancora grandi emozioni in "Distance and time", una canzone d'amore assoluta dedicata a tutti coloro che la vita costringe a separazioni nei luoghi e nei tempi.
Con "The element of Freedom" Alicia Keys si conferma nuovamente come una delle più grandi artiste della black music contemporanea, capace di toccare l'anima e mettere d'accordo sia gli estimatori del soul più tradizionale che i fruitori dell'R&B più moderno/commerciale. Da fuoriclasse quale è, non si limita alla semplice interpretazione: Alicia scrive, produce e suona le sue canzoni (in questo disco, insieme a Jeff Robinson, Peter Edge e Kerry "Krucial" Brothers), e se mai dovesse capitarvi di vederla suonare dal vivo seduta davanti al suo pianoforte - così come è capitato a me nel 2005 - allora probabilmente capirete a pieno, solo in quel momento, la vera essenza della sua cifra stilistica. Da brivido.

• Mariah Carey, come gli accessori nello shopping = DECORATIVO
• R. Kelly, solo per gli estimatori incalliti = COLLEZIONISTICO
• Alicia Keys, assolutamente da non perdere = IRRINUNCIABILE