giovedì 26 giugno 2014

giovedì 19 giugno 2014

Una storia del Webcon.

Una storia del Webcon. Una su mille, che potrei raccontarvi. Cronologicamente, solo l'ultima. Ma comincio proprio da questa.

Venerdi scorso, nel primo pomeriggio, Repubblica.it ha pubblicato questo articolo dedicato al Webcon, che è stato nella loro homepage per tutta la giornata (poi, pur rimanendo on-line, è finito in automatico nella sezione Tecnologia). Alle 16:36, quindi con un feedback quasi immediato, ricevo la mail del Managing Director italiano di «uno dei primi quattro fornitori di software più importanti del mondo», il cui fatturato supera i 600 milioni di dollari annui.

Che mi scrive: «Ho letto con attenzione l’articolo uscito su Repubblica che vi riguarda. Posso saperne di più?»

Tutto chiaro fino a qui?
Vuole saperne di più, va benissimo. Anche se l'articolo in questione dichiara esplicitamente di COSA abbiamo bisogno. Ma vorrei porre la vostra attenzione sul fatto che è lui - il Direttore della sede italiana di questa multinazionale - a contattare noi (che poi era lo scopo del pezzo); non siamo stati noi a cercare lui, come invece ci è capitato di fare infinite volte. Che potrebbe sembrare una sottigliezza, ma non lo è affatto. Sia da un punto prettamente professionale, che da un punto di vista psicologico.
Ma sto divagando, perdonatemi. Andiamo avanti.

Nel tentativo di evitare inutili scambi epistolari di mail (che per "saperne di più" sul Webcon ci sarebbero un milione di cose da dire) lo invito con estrema cortesia ad incontraci di persona uno qualsiasi dei giorni successivi, come a lui viene più comodo.
E lui mi risponde: «Sono in partenza per Londra, di rientro giovedi. Se vuole intanto anticipare qualcosa via mail le sarei grato».

OK, d'accordo.
Avrei preferito un appuntamento, ma non c'è problema.
Mi armo come sempre di santa pazienza e riscrivo daccapo, per l'ennesima volta, una lettera che "spieghi" COSA sia il Webcon e QUALI siano i suoi fini (si, lo so, sono un idiota: non faccio MAI il copia & incolla delle mie presentazioni, ma le riscrivo OGNI VOLTA daccapo "personalizzandole" il più possibile per le specifiche aziende a cui le sto inviando); gli parlo dei contenuti, del programma, dei patrocini, dei partners e degli ospiti. Gli parlo di aggregazione, di numeri, di community, di influencers e di engagement. Gli parlo anche dei costi, ovviamente. Ma soprattutto dei VALORI che vuole esprimere questa manifestazione, di quanto un Main Sponsor possa diventare portavoce di quegli stessi valori in termini di immagine e di merito, potendosene attribuire a pieno titolo la paternità.

E lui mi risponde con cinque parole: «E quanto vale una partecipazione?»

Uhm, percepisco SUBITO qualcosa che non mi quadra.
Non è la prima volta che mi viene chiesto. Ma in altri modi, con altri tempi, insieme e molte altre domande. Sono un po' perplesso, se penso che mi ha cercato lui dopo aver letto il pezzo su Repubblica. Ma con tutta la cortesia del mondo gli rispondo nuovamente. Proponendogli diverse tipologie di "partecipazione" sulla base del Piano Sponsor che avevamo preparato più di un anno fa (ma che oramai non stavamo nemmeno più seguendo). Non nascondendogli che speravo che il loro contatto fosse frutto di un impeto di lungimirante mecenatismo finalizzato a candidare il loro brand come Main Sponsor dell'intera manifestazione, coprendo quei costi che lui stesso aveva potuto leggere nell'articolo in questione. La famosa impasse.

Mi risponde: «Stefano, siamo fuori budget e questo e' un momento di crisi per tutti. Amen, aggiungo io».  

Amen. Aggiungo. Io.
Ecco, a questo non sono pronto.
Non sono abituato ad un linguaggio del genere, tanto più quando il mio interlocutore è un Amministratore Delegato, un Direttore Marketing e Comunicazione o comunque il megadirigente di una grande azienda. E in diciotto mesi di lavoro di interlocutori del genere ne ho avuti davvero TANTI, credetemi.
Come può il Direttore della sede italiana di una multinazionale esprimersi in questo modo?
«Amen, aggiungo io»?!?

Ne sono un po' infastidito, non ve lo nascondo.
Ma gli rispondo per l'ennesima volta (io che non volevo parlarne per mail) con tutta la cortesia del mondo, che prima o poi si esaurirà.
Facendo un po' il finto ingenuo, gli chiedo se quel suo Amen è da intendere sulla possibilità della totale copertura dei costi (che posso facilmente immaginate "fuori budget") oppure se è definitivo su tutta la questione, senza nemmeno esserci realmente confrontati su una possibile soluzione.

E qui viene il bello: «Amen significa che non possiamo gettare soldi ovunque e che quindi, per come sono messe le cose, onde non potendoci permettere Main Sponsorship come da Lei suggerito, allora non possiamo far altro che rinunciare a questa opportunità»

Ricevo questa mail e rimango BASITO.
Si, avete letto bene: loro non possono gettare soldi ovunque!!!
Ed è a questo punto che mi rendo pienamente conto dell'allarme che mi era già suonato nella testa sin dalla sua prima risposta di cinque parole. La percezione si trasforma in chiarezza, perché focalizzo sempre meglio l'interlocutore con cui sto carteggiando. Una persona che - pur ricoprendo un ruolo professionale di massimo livello per conto di una famoso brand internazionale - si sta rivelando un gran maleducato.

Incredibilmente non perdo la pazienza nemmeno qui.
Beh, detto tra noi mentalmente l'ho già mandato a 'fanculo! E' chiaro ;)
Ma gli rispondo che - pur rinnovandogli il mio invito ad incontraci - se una sponsorizzazione del genere la vede semplicemente come un "gettare soldi ovunque" anziché come un valido investimento, allora quel suo Amen assume un senso da ambo le parti.

E lui: «La ringrazio ma la nostra risposta è no»

Come se io in quel momento gli avessi chiesto qualcosa.
Come se fossi stato io a cercarlo.

E tutto questo, prima ancora che tornasse da Londra.

Fine della storia.
C'è gente così là fuori.
E i vostri computer montano i loro software.
#sapevatelo
#no_comment

sabato 14 giugno 2014

JamMentality

Che mi sia decisamente perso il contatto con la nuova scena hip hop italiana è cosa nota. Ho parlato più volte di questo "distacco" dovuto in gran parte dall'ovvio gap generazionale (nell'ascoltare - una volta superati i quaranta - rime di pischelli con argomenti da pischelli) che poi mi porta inevitabilmente a rimanere ancorato solo alle crew, i dj's o gli mc's con cui sono cresciuto. Ad ascoltare solo determinate cose, peraltro sempre le stesse e sempre più rare.
Cose preziose, come direbbe Kaos.

Questo per dire che, rispetto ai tempi di BIZ Magazine, tra me e l'underground italiano c'è una voragine. Decine, centinaia, di piccole produzioni indipendenti che continuano ad uscire mese dopo mese. Che spesso vedo/leggo solo di sfuggita su quei soliti quattro siti specializzati in rap. Nomi di gruppi, di singoli rappers, titoli di EP o di interi album che non mi dicono assolutamente nulla. Che non conosco né riconosco.

Poi però succede che per motivi assolutamente NON legati alla musica, mi arrivi tra le mani questo "JamMentality" della crew romana Luci Soffuse. Succede che lo metta nel mio lettore mentre guido, e che - ascolto dopo ascolto - ne rimanga davvero sorpreso.

Credo dipenda principalmente da un fattore (non affatto casuale, in virtù della premessa che ho fatto): cioè il suo sapore assolutamente old school. Tanto nelle rime, quanto nelle basi, che - a differenza di tanti altri album - fa si che me lo ascolti fino in fondo, muovendo la testa a tempo, cosa oramai quasi più unica che rara.

In effetti che fossero "cresciuti" rispetto al loro precedente EP me ne ero già accorto dal video di "Dove restiamo", il primo singolo estratto da questo album. Soprattutto nel suono, più asciutto e pulito. Un merito da attribuire a Brasca Produzioni (che firma 4 tracce su 13), ma non crediate che le produzioni di Zero siano da meno. Anzi.

Grigio, Dunk, Brama, El Gabro e Zero - ensemble sangue & oro con una storia che lo porta da Colli Albani al Corviale, passando per Piramide, ora affiliato Grimlock UniversityGrimlock Records - ci consegnano un disco prepotentemente GENUINO; una valanga di rime - dal flow tipicamente romano - senza tregua e senza concessioni, pregne di argomenti CREDIBILI e di storytelling (cioè l'antitesi della superficialità di un certo rap milanesotto e patinato che ben conosciamo); con basi POTENTI e looppatissime, proprio come piaceva a noi. Come certe cose dei Gang Starr, oserei dire.
Una questione di attitudine e di mentalità, allora.
Di (jam)mentality, per l'appunto.

Tredici pezzi tra cui - dovendo sceglierne qualcuno - oltre a quello che titola l'intero album, segnalerei sicuramente "Cosa conta", "I'm a good man" (forse la mia preferita in assoluto, dal sample ipnotico), "La melodia del rapper serio" con il feat. di Lord Madness (una nostra cara vecchia conoscenza), "Feeling Bad" con il feat. di Phedra (una delle poche mc's che si distinguono davvero nella scena femminile) e "Nessuna risposta", che poi è anche il secondo singolo - con relativo video - estratto da "JamMentality".

Se questo disco non mi fosse piaciuto, credetemi se vi dico che non ne avrei nemmeno parlato.
Invece eccoci qui, dando a Cesare ciò che è di Cesare.
Perché ci sono tante cose della scena capitolina contemporanea che non amo per niente (e parlo soprattutto di contenuti, non di tecnica o stile), mentre è quando ascolto un disco come questo che poi mi ricredo, rendendomi conto che - grazie al Cielo - c'è sempre qualcuno che raccoglie "nel modo giusto" il Testimone che gli è stato passato da questa Cultura.
E Luci Soffuse rendono onore e merito al rap di Roma.

venerdì 13 giugno 2014