Una storia del Webcon. Una su mille, che potrei raccontarvi. Cronologicamente, solo l'ultima. Ma comincio proprio da questa.
Venerdi scorso, nel primo pomeriggio, Repubblica.it ha pubblicato questo articolo dedicato al Webcon, che è stato nella loro homepage per tutta la giornata (poi, pur rimanendo on-line, è finito in automatico nella sezione Tecnologia).
Alle 16:36, quindi con un feedback quasi immediato, ricevo la mail del Managing Director italiano di «uno dei primi quattro fornitori di software più importanti del mondo», il cui fatturato supera i 600 milioni di dollari annui.
Che mi scrive: «Ho letto con attenzione l’articolo uscito su Repubblica che vi riguarda. Posso saperne di più?»
Tutto chiaro fino a qui?
Vuole saperne di più, va benissimo. Anche se l'articolo in questione dichiara esplicitamente di COSA abbiamo bisogno.
Ma vorrei porre la vostra attenzione sul fatto che è lui - il Direttore della sede italiana di questa multinazionale - a contattare noi (che poi era lo scopo del pezzo); non siamo stati noi a cercare lui, come invece ci è capitato di fare infinite volte. Che potrebbe sembrare una sottigliezza, ma non lo è affatto. Sia da un punto prettamente professionale, che da un punto di vista psicologico.
Ma sto divagando, perdonatemi. Andiamo avanti.
Nel tentativo di evitare inutili scambi epistolari di mail (che per "saperne di più" sul Webcon ci sarebbero un milione di cose da dire) lo invito con estrema cortesia ad incontraci di persona uno qualsiasi dei giorni successivi, come a lui viene più comodo.
E lui mi risponde: «Sono in partenza per Londra, di rientro giovedi. Se vuole intanto anticipare qualcosa via mail le sarei grato».
OK, d'accordo.
Avrei preferito un appuntamento, ma non c'è problema.
Mi armo come sempre di santa pazienza e riscrivo daccapo, per l'ennesima volta, una lettera che "spieghi" COSA sia il Webcon e QUALI siano i suoi fini (si, lo so, sono un idiota: non faccio MAI il copia & incolla delle mie presentazioni, ma le riscrivo OGNI VOLTA daccapo "personalizzandole" il più possibile per le specifiche aziende a cui le sto inviando); gli parlo dei contenuti, del programma, dei patrocini, dei partners e degli ospiti. Gli parlo di aggregazione, di numeri, di community, di influencers e di engagement. Gli parlo anche dei costi, ovviamente. Ma soprattutto dei VALORI che vuole esprimere questa manifestazione, di quanto un Main Sponsor possa diventare portavoce di quegli stessi valori in termini di immagine e di merito, potendosene attribuire a pieno titolo la paternità.
E lui mi risponde con cinque parole: «E quanto vale una partecipazione?»
Uhm, percepisco SUBITO qualcosa che non mi quadra.
Non è la prima volta che mi viene chiesto. Ma in altri modi, con altri tempi, insieme e molte altre domande.
Sono un po' perplesso, se penso che mi ha cercato lui dopo aver letto il pezzo su Repubblica. Ma con tutta la cortesia del mondo gli rispondo nuovamente. Proponendogli diverse tipologie di "partecipazione" sulla base del Piano Sponsor che avevamo preparato più di un anno fa (ma che oramai non stavamo nemmeno più seguendo). Non nascondendogli che speravo che il loro contatto fosse frutto di un impeto di lungimirante mecenatismo finalizzato a candidare il loro brand come Main Sponsor dell'intera manifestazione, coprendo quei costi che lui stesso aveva potuto leggere nell'articolo in questione. La famosa impasse.
Mi risponde: «Stefano, siamo fuori budget e questo e' un momento di crisi per tutti. Amen, aggiungo io».
Amen. Aggiungo. Io.
Ecco, a questo non sono pronto.
Non sono abituato ad un linguaggio del genere, tanto più quando il mio interlocutore è un Amministratore Delegato, un Direttore Marketing e Comunicazione o comunque il megadirigente di una grande azienda. E in diciotto mesi di lavoro di interlocutori del genere ne ho avuti davvero TANTI, credetemi.
Come può il Direttore della sede italiana di una multinazionale esprimersi in questo modo?
«Amen, aggiungo io»?!?
Ne sono un po' infastidito, non ve lo nascondo.
Ma gli rispondo per l'ennesima volta (io che non volevo parlarne per mail) con tutta la cortesia del mondo, che prima o poi si esaurirà.
Facendo un po' il finto ingenuo, gli chiedo se quel suo Amen è da intendere sulla possibilità della totale copertura dei costi (che posso facilmente immaginate "fuori budget") oppure se è definitivo su tutta la questione, senza nemmeno esserci realmente confrontati su una possibile soluzione.
E qui viene il bello: «Amen significa che non possiamo gettare soldi ovunque e che quindi, per come sono messe le cose, onde non potendoci permettere Main Sponsorship come da Lei suggerito, allora non possiamo far altro che rinunciare a questa opportunità»
Ricevo questa mail e rimango BASITO.
Si, avete letto bene: loro non possono gettare soldi ovunque!!!
Ed è a questo punto che mi rendo pienamente conto dell'allarme che mi era già suonato nella testa sin dalla sua prima risposta di cinque parole. La percezione si trasforma in chiarezza, perché focalizzo sempre meglio l'interlocutore con cui sto carteggiando. Una persona che - pur ricoprendo un ruolo professionale di massimo livello per conto di una famoso brand internazionale - si sta rivelando un gran maleducato.
Incredibilmente non perdo la pazienza nemmeno qui.
Beh, detto tra noi mentalmente l'ho già mandato a 'fanculo! E' chiaro ;)
Ma gli rispondo che - pur rinnovandogli il mio invito ad incontraci - se una sponsorizzazione del genere la vede semplicemente come un "gettare soldi ovunque" anziché come un valido investimento, allora quel suo Amen assume un senso da ambo le parti.
E lui: «La ringrazio ma la nostra risposta è no»
Come se io in quel momento gli avessi chiesto qualcosa.
Come se fossi stato io a cercarlo.
E tutto questo, prima ancora che tornasse da Londra.
Fine della storia.
C'è gente così là fuori.
E i vostri computer montano i loro software.
#sapevatelo
#no_comment
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